I vigneti ed i palmenti nella tradizione popolare - Il vino le cantine vinicole, l'enoturismo in Sicilia

Cantine vinicole in Sicilia

Se siete appassionati del vino, allora sapete che il vino non è solo un prodotto, ma una vera e propria esperienza. E se siete anche amanti del turismo enologico, non potete perdervi l'enoturismo in Sicilia. Questa splendida regione italiana è famosa per le sue cantine vinicole, dove potrete scoprire i segreti della produzione del vino e assaggiare i pregiati nettari siciliani. Passeggiate tra le vigne, ammirate i paesaggi mozzafiato e deliziate il palato con i vini locali. L'enoturismo in Sicilia vi regalerà momenti indimenticabili e vi farà innamorare ancora di più del vino.



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I vigneti ed i palmenti nella tradizione popolare

Il vigneto, la vite, il palmento

Il vigneto, infatti, riflette l’antica pratica dell’addomesticamento della natura da parte dell’uomo, così come avviene con la paziente pratica dell’innesto nella  vite.

La vigna, non è una coltivazione immediatamente produttiva. «Piantare una vigna – scrive Enzo Bianchi, fondatore e priore della comunità monastica di Bose – è come fare un matrimonio con la terra, e gesto di grande speranza, il vero ed ultimo frutto della vigna non è l’uva ma il vino.

Nel calendario stagionale contadino, la vendemmia particolarmente attesa e sentita dalle comunità rurali, perché legata al benefico ciclo del vino che, sotto il profilo economico, per le sorti di tutte le comunità rurali. Emblematica appare, dunque, la scena della vendemmia, nell’occasione quella dei Peloritani, che, dai filari dei vigneti sulle “rasule”, risuonanti di voci, canti e suoni, di uomini e donne, eccitati dalla raccolta dei “gravidi” grappoli d’uva, ci conduce, seguendo la lunga teoria di “cofinara”, guidati dal suono orgiastico del “ciaramiddaru”, al palmento, dove, il ritmato pigiare degli uomini scalzi sugli acini, libererà l’aspro mosto che tutto tinge, infine riversato, “ca quartara du parmentu”, col “pista en butta” o dopo circa 24 ore di fermentazione, nelle otri di pelle, di memoria omerica, per essere sollecitamente conservato “al buio delle botti”, perché si compia l’atteso “miracolo” della “trasmutazione” del mosto in vino, spillato nel giorno di san Martino, “quannu ogni mustu è vinu”.

Iniziamo dunque dalla storia dove i “cofinara”, i portatori d’uva, vanno su e giù per tutto il giorno dai vigneti ai palmenti a fondo valle in paese, con enormi “cofani”.

La lunga fila di “cofinara” si snodava lungo viottoli, era preceduta da uno zampognaro, che scandiva il ritmo di marcia dei portatori», durante il percorso si sostava dove si potevano appoggiare i “cofani” per bere e detergere la nuca tormentata dallo strofinìo della “baddedda” (il caratteristico basto umano, imbottito di paglia e indossato come un copricapo e appoggiato come un materassino sulla punta della schiena.

Nel palmento si versavano i cofani ricolmi, dove a piedi nudi si pestava l'uva. Poco dopo un fiotto di mosto denso e scuro si scaricava nella vasca sottostante insieme a raspi e manciate di chicchi e gli “utrara” che trasportavano il mosto dal palmento alle cantine in contenitori di pelle di capra».

La festa della vendemmia si rinnovava tutti i giorni per oltre un mese, fra settembre e ottobre, e coinvolgeva tutto il paese. Le donne e i bambini venivano impegnati nella raccolta dell’uva che era una festa nella festa. Si partiva la mattina molto presto, in maniera che la raccolta cominciasse alle prime luci. A sera, quando si tornava al villaggio stanchi e col fardello di una cesta piena d’uva, si pensava solo alla cena successiva. Una cena a base di maccheroni arrotolati fatti in casa e lasciati asciugare come i panni sui fili distesi in tutti gli angoli della casa. Maccheroni al sugo, naturalmente, un sugo di concentrato di pomodoro, con l’aggiunta di tritato e cotenne di maiale. Dopo i maccheroni si passava alla salsiccia, al castrato, al pecorino, alle olive salate, e vino.
Il palmento

Il palmento

Per palmento, si indica in Sicilia il locale di pigiatura e vinificazione dell’uva, dopo migliaia di anni viene descritto come “il luogo in cui avveniva la pigiatura dell’uva per produrre il mosto che veniva riposto in grandi vasche.
In questi ultimi anni, l’applicazione delle leggi comunitarie in materia d’igiene e produzione alimentare ha apportato una vera e propria rivoluzione. Tali leggi hanno ribadito quello che da qualche tempo era già sancito dalle leggi nazionali, vale a dire che le vecchie cantine, i palmenti, e quindi le vecchie cantine non sono, adeguate dal punto di vista igienico sanitario e della sicurezza, alla trasformazione di prodotti vitivinicoli, ne ha decretato la fine.

L'ambiente, costruiti in pietra lavica, i palmenti erano strutturati su diversi livelli, solitamente alloggiato al piano terra della massaria, conteneva la vasca principale elevata rispetto al pavimento (parmentu, gebbia) e quella di raccolta, sottostante e seminterrata per la raccolta (puzzu, tina, zubbiu), qui avveniva la fermentazione alcolica con bucce e raspi, che poteva durare anche una settimana.
I pistatura, a piedi scalzi, spremevano l'uva con passo ritmato, mentre all'occorrenza si aggiungevano nella vasca nuovi grappoli.
Il succo che fuoriusciva (u mustu) travasava nella tina attraverso il cannuolu, a cui spesso veniva appeso un piccolo cesto che servisse da filtro.
Pigiato tutto il raccolto, si procedeva alla tramutata (tramutatina), ovvero al travaso del mosto raccolto che veniva riversato nella vasca superiore dov'erano i graspi, per iniziare la fermentazione.
Dopo la svinatura della tina, il mosto in fermentazione veniva fatto defluire in altre vasche posizionate sotto la tina, dette ricevituri, oppure direttamente nelle botti di castagno collocate in un altra stanza sotto al palmento, chiamata ispensa.
Ciò avveniva per mezzo della lancedda, presa come unità di misura (circa l. 8,5) e dunque utile per una anticipata approssimativa stima.
La conta avveniva declamando i nomi di santi, in una progressione che faceva riferimento alle date calendariali delle festività, cui seguivano risposte recitate e anch'esse codificate.
La giornata dei vignaioli finiva in genere con una piccola festa agreste, attraverso il consumo del pranzo, bevute di vino dai caratteristici fiaschi, brindisi, giochi, scherzi di ogni genere.
Nella dispensa si trovavano i cosiddetti tinelli torcifezza in castagno che con un apposita struttura di legno e corde servivano a filtrare le fecce prodotte con i travasi del vino. Si mettevano le fecce in un sacco di juta,legato ad un bastone , cruci, che si appendeva all’interno del tinello, in modo che, con il defluire del vino, questo diventava sempre più pesante e pressava ulteriormente la feccia dentro al sacco.
Le botti di castagno erano di svariate misure.
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