Ballata di lupara del cantastorie Franco Trincale
Pubblicato in Cultura e Società · Mercoledì 13 Set 2023 · 6:00
Tags: Ballata, di, lupara, del, cantastorie, Franco, Trincale, riforme, Mezzogiorno, società, pluralistica, assetti, latifondisti, mediazioni, capitalistiche, mafia, chitarra, storie, di, mezzo, secolo, d'Italia, fabbriche, Lu, Cantastorie, voce, popolare
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Ballata di lupara del cantastorie Franco Trincale
Ballata di lupara del cantastorie Franco Trincale, espresse le riforme che sin dal fascismo prevedevano l’inserimento del Mezzogiorno in una società pluralistica e la persistenza degli assetti latifondisti e delle mediazioni capitalistiche nelle forme cristallizzate della mafia.
Armato di chitarra ha raccontato e tradotto in musica le storie dell’ultimo mezzo secolo d’Italia. Dalle fabbriche alle piazze e da ogni luogo dove protagoniste sono le persone e le loro lotte. Mettendo il dito nell’occhio dei resoconti ufficiali e della stampa
Lu Cantastorie cala lu telone/
la storia è terminata di cantari/
n’avvertimentu a tutti li personi/
sta società bisogna di cambiari.
Franco Trincale, “Una piazzetta, un cartellone, una chitarra ed una voce popolare/per raccontare storie di terre e di mare! Canta il Cantastorie e “cunta”:
parla d’Amore, e di guerra, di Pace, di storie di sempre, da che esiste la Gente! /Canta di popoli vissuti lontani nel tempo, che combatterono, come quelli di oggi, /per vivere meglio, contro ogni stato sovrano!/La gente si avvicina, la gente si allontana: si mantiene “distante” e, distrattamente, fa finta di niente./ Ma quando il Cantastorie incomincia a cantare con quella sua voce calda e popolare, la gente ammutolisce e si lascia trasportare;/ diventa silenziosa, attenta, si commuove, piange e ride e riflette!/ (da http://www.trincale.com/)”.
Franco Trincale, così riassume la sua arte di cantastorie. Ultimo trovatore, incarnazione dalla nobile tradizione dei cantastorie siciliani, quella tradizione l’ha fatta rinascere a Milano, nel cuore della città meneghina, in quel nord di fabbriche e industrie, di disoccupati e di malaffare che negli anni del boom economico, e a seguire, è stata la sua piazza, il palcoscenico di una protesta suonata e cantata. E mostrata nelle tele dipinte a fumetti. Cartelloni esplicativi, come tipico dei veri cantastorie.
Si trasferisce a Milano nel dopoguerra, come tanti in quegli anni, in cerca di lavoro. La Milano è quella alienata, mirabilmente raffigurata da Luciano Bianciardi nel suo capolavoro “La vita agra”. Quella Milano in cui; “È aumentata la produzione lorda e netta, il reddito nazionale cumulativo e pro capite, l’occupazione assoluta e relativa, il numero delle auto in circolazione e degli elettrodomestici in funzione, la tariffa delle ragazze squillo, la paga oraria, il biglietto del tram e il totale di circolanti su detto mezzo, il consumo del pollane, il tasso di sconto, la statura media, la produttività media e la media oraria al giro d’Italia. Tutto quello che c’è di medio è aumentato” [Bianciardi, L. 2009, pp. 157-158].
Una città di disuguaglianze profonde, di immigrati in cerca di un futuro, di donne e uomini sempre di fretta.
Una cosa però ha imparato, oltre a maneggiare armi: suonare la chitarra e comporre ballate.
Di qui il progetto di fare della musica una professione: “Invece della mitraglia – dice – ho preferito la chitarra, facendo il cantastorie” [Straniero, M.L. p. 13].
Un’ambizione che non nasce dal nulla, ma dall’ascolto dei cantastorie che attraversavano i piccoli paesi della Sicilia, come Militello, in provincia di Catania. Lui, bambino appassionato, assisteva a quegli spettacoli con occhi meravigliati. In famiglia, poi, il padre era attore drammatico dialettale, già dentro al mondo dell’arte.
Così è la musica, la vocazione. Franco si esibisce nelle piazze siciliane, cominciando a farsi conoscere. Poi un compare salito al nord per lavorare come muratore gli racconta che a Milano la gente che canta nelle piazze raccoglie anche cinquecento lire. Impensabile un tale guadagno al sud.
Franco si convince. Ed è vero che la gente è tanta nella grande città, e spesso si ferma ad ascoltare un cantastorie. Il problema è la lingua, quel dialetto siciliano che al nord nessuno capisce, se non i meridionali. Che a Franco, narratore di storie e di cronache, non bastano come pubblico. “Mi arrabbiavo – dice – quando non riuscivo a comunicare, a far fermare, anche la gente del Nord, il milanese…Allora m’accorsi che dovevo un po’ cambiare il linguaggio, e uscire fuori da quello che era il dialetto puro della mia ballata” [Straniero, M.L. p. 12]. Così decide di italianizzare il suo dialetto per renderlo comprensibile a tutti, pur mantenendo certe tipicità, per marcare comunque il suo specifico di cantastorie. Questa manipolazione della lingua è anche una scelta coerente con un obiettivo importante che si è posto: con le sue canzoni intende arrivare a tutti, anche a coloro che, analfabeti o senza una lira, non leggono un quotidiano e non conoscono ciò che avviene nel Paese, le disgrazie, i problemi della società. Cantare quelle canzoni, con quel suo italiano misto al siciliano, è una scelta politica, di cui egli è ben consapevole.
“Io sono nato laggiù in Meridione – canta – […] dove in pochi si legge il giornale e la scuola non è obbligatoria/ dove a sedici anni si è sfruttati/ ed a vent’anni in Questura arruolati […] Io sono nato laggiù in Meridione/ e voglio fare la rivoluzione” [Il Meridionale in Straniero, M.L. p. 19].
Nei primi tempi intrattiene i passanti con le tipiche canzonette napoletane, come Lazzarella e Guaglione. E la gente si ferma, ascolta piacevolmente. Il problema nasce quando Franco intona le sue ballate politiche.
È lì che se ne vanno, sia i settentrionali che i meridionali. E a lui prende una gran rabbia, perché ciò per cui vuole essere ascoltato sono quelle ballate, di protesta e di lotta. E presto si accorge che lì al nord è ben accetto fino a che resta nello stereotipo del cantore folcloristico, quando invece il discorso tocca argomenti fastidiosi allora “t’incominciano non solo a scansare tutti, ma t’incominciano a mettere gli ostacoli per non farti più andare avanti” [Straniero, M.L. p. 16].
Come la lotta alla mafia. Cantata di lupara è dedicata a Salvatore Carnevale ucciso dalla mafia padronale a Sciara. Salvatore, gran faticatore, lavorava nei campi e come operaio nelle fabbriche. Poi divenne sindacalista e incitava i suoi compagni a reagire di fronte allo sfruttamento: operai, zappatori, contadini, minatori per tutti esisteva un futuro migliore. I discorsi di Salvatore infastidivano i grandi proprietari, ma “Salvatore non cedette alle minacce del grosso padrone agrario così il padrone pagò i mafiosi che appostatisi all’alba dietro una siepe spararono alle spalle di Salvatore Carnevale” [Straniero, M.L. p. 20]. Salvatore Carnevale fu trovato assassinato con due colpi di lupara all’alba del 16 maggio 1955, mentre si recava a lavorare in una cava di pietra. Aveva 31 anni.
Fonti di questo articolo:
- Trincale: http://www.trincale.com/
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