Eros e satira nella poesia di Domenico Tempio
Pubblicato da Antonino Cangemi, Dialoghi mediterranei in Cultura e Società · Martedì 27 Feb 2024 · 15:00
Tags: Eros, satira, poesia, Domenico, Tempio
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Eros e satira nella poesia di Domenico Tempio
Pubblicato il 1 maggio 2018 da Comitato di Redazione
Dialoghi Mediterranei, n.31, maggio 2018
Domenico-Tempio
di Antonino Cangemi
https://www.istitutoeuroarabo.it/DM/eros-e-satira-nella-poesia-di-domenico-tempio/
Domenico Tempio, chi era costui? Un poeta pornografo, risponderà chi ha ancora memoria di letteratura in Sicilia; il più benevolo lo correggerà: poeta erotico, non pornografo; chi vuol conquistare la platea, reciterà i suoi versi più noti (o meno ignoti), certamente esplosivi d’incontenibile sensualità de La futtuta all’inglisi: «Veni ccà figghia! Curcati! / Spinciti tanticchiedda; / li to labbruzza dùnami, / dammi nna vasatedda. / Nici, fa prestu; dùnami / sta duci to linguzza; / ntra la mia vucca tràsila, / facemu la sirpuzza / Sti cosci toi, sti natichi / sunnu nna vera tuma; / li minni su’ dui pròvuli, / chiù bianchi di la scuma».
Poeta dell’eros, Domenico Tempio: questa etichetta è valsa a strapparlo all’oblio. Già, l’eros, quell’impulso vitale da sempre celebrato in letteratura: si pensi, per limitarci alla poesia e ai greci e ai latini, a Saffo, Catullo, Ovidio, Marziale. Ma le tante poesie di Tempio a sfondo spiccatamente sessuale diffuse anche nel web fanno un torto all’autore, fornendone una rappresentazione ingannevole e parziale. Domenico Tempio fu un poeta satirico di forte tempra morale, tra i più importanti tra quelli dialettali siciliani, che si dilettò a comporre versi licenziosi, la maggior parte data alla stampa indipendentemente dalla sua volontà (circolavano clandestinamente, tanti attribuitigli arbitrariamente, come in genere accade per la pornografia). Per rendersi conto del rilievo letterario di Tempio, basta leggere quanto su di lui scrive Gino Raya: «Questa penna, che – per certe apparenti scurrilità – sembrerebbe ignara d’ogni ferro del mestiere, conosce alchimie e strutture che non hanno nulla da invidiare a quelle del Parini, dei Monti, dei Foscolo».
Nella biografia di Domenico, detto Micio, Tempio l’incertezza se non prevale, s’insinua su diversi punti non secondari. Se la città che lo ha generato è di sicuro Catania, altrettanto sicura non può dirsi la data di nascita: secondo alcune fonti il 21 agosto del 1750, secondo altre – più attendibili – il 22 agosto dello stesso anno, secondo altre ancora il 22 agosto del 1751. I genitori furono Giuseppe Tempio, un mercante di legna, e Apollonia (o Rosaria?) Arcidiacono. Pare che Micio sia stato il terzo di sette figli. Fu instradato presto al sacerdozio, ma con risultati fallimentari. Lo spirito libero e anticonformista del giovane Tempio, la sua natura schietta, ligia al rigore morale ma non ai moralismi e aliena ai falsi perbenismi e all’ipocrisia, mal tollerava le untuose convenzioni di ambienti inclini alla doppiezza farisaica e ai formalismi tartufeschi. Quegli ambienti, anzi, sollecitarono l’anima ribelle di Micio e ne ispirarono la vena poetica polemica e beffarda.
I suoi primi versi in toscano, infatti, schernirono il rettore del seminario: «Il Rettor del Seminario / è uno sciocco, signorsì, / è un superbo ed un fanatico / che peggiora ognidì / …Crede ognor che il Santo Spirito / lo ispirasse in ciò che fa, / ma di lui la più insopportabile / fiera bestia non si dà». Né miglior sorte ebbero il vice rettore, anche lui preso di mira dalle rime di Micio che lo ritrae in fuga con una prostituta: «In Roma fuggisti / indegno adultero. / Tornasti miserabile / Portando il toscanesimo / in bocca, e niente più», e il maestro di comunità presentato come un asino / Prefetto meritissimo / della Comunità».
Queste sue prime composizioni, non appena scoperte, ebbero un duplice effetto: ne troncarono la carriera ecclesiastica e segnarono il solco del suo destino, che non poteva essere disgiunto dalla letteratura. Rimase al seminario fino al 1773 all’età di 23 anni. Uscito dal seminario, Tempio si dedicò agli studi giuridici, ma con scarsa passione. Quegli studi, per i quali non era vocato, Micio fu costretto a interromperli quando, morto suo padre nel 1775, dovette occuparsi della sua attività commerciale di mercante di legna. Anche in questo caso con profitti assai modesti: il commercio non era pane per i suoi denti.
Solo la letteratura non lo respingeva. Si dedicò alla lettura di Machiavelli e di Guicciardini, nonché dei maggiori poeti italiani, e s’interessò di studiosi francesi, come Charles Rollin, giansenista figlio di un coltellinaio diventato rettore dell’Università di Parigi, e Antoine Yves Goguet, noti per il loro anticonformismo. Sebbene per natura irrequieto e talvolta irriverente, fu accolto da alcune Accademie che ne riconobbero i meriti di studioso attento e di poeta talentuoso. Sicché fece parte dell’Accademia dei Palladi, dove venne battezzato Aurisco Galeate, fu socio dell’Accademia degli Etnei e di quella dei Trasformati di Noto col nome di Melanconico.
Ma di sola letteratura, si sa, non si è mai potuto vivere da che mondo è mondo, e l’esistenza di Micio Tempio fu perseguitata dalla miseria: contrasse debiti su debiti, conobbe gli stenti di chi non godeva di proventi certi e continui. Dopo la scomparsa della madre, Tempio sposò Francesca Longo. Fu una convivenza breve, perché la donna morì di parto. Nacque una bambina, che fu accudita dalla balia, Caterina, con la quale contrasse una relazione affettiva duratura e profonda. Caterina gli venne incontro e l’aiutò anche nei momenti finanziariamente più difficili, quando più creditori tentarono di spogliarlo, in parte riuscendoci, dei pochi beni che gli erano rimasti. Da lei ebbe un secondo figlio nel 1803, Pasquale, che il poeta legittimerà solo nei suoi ultimi giorni quando la gnura Caterina era già morta da tempo.
Ma che rapporto ebbe Micio con le donne? Fu un frequentatore di prostitute come farebbe pensare il personaggio maudit che si è cercato di costruire nel momento stesso in cui si è accentuato il carattere “osceno” della sua produzione poetica? O, al contrario, ebbe una vita piuttosto morigerata e furono poche, o comunque dentro i binari della comune normalità, le relazioni col gentil sesso?
L’impressione che manifesta Sciascia, osservando il busto di Tempio nel giardino catanese dedicato a Bellini in cui il poeta appare «così esile e immalinconito» [3], è «che la pornografia in fondo non sia che il prodotto di una sorte di etisia o di impotenza». Insomma, lo scrittore di Racalmuto lascia intendere che Tempio fosse, come in genere paradossalmente i pornografi, tutt’altro che uno sciupafemmine.
La biografia di Micio è troppo scarna per potere fornire una risposta soddisfacente. Ci s’interroga innanzitutto su chi fosse Nice, la donna a cui prevalentemente si rivolge nelle sue composizioni erotiche. Un’ipotesi formulata da chi si è accostato con attenzione sia alla vita che alla poetica di Tempio è che dietro Nice tante volte si nasconda la sua sposa Francesca Longo, morta, come si è detto, nel parto. L’ipotesi è singolare perché Nice sarebbe Francesca Longo sia quando il poeta le si rivolge con soave dolcezza, sia in certe ottave spiccatamente erotiche. Ed ecco perciò, da un lato, una lirica delicatissima dedicata a Licia (sua moglie) in cui il poeta sente di amare e di essere amato «cu affettu e tinirizza» che «mai l’avia pruvatu» e si bea «d’avirti a lu me latu / Prestu disìu: pirchì / Tu l’anima e lu ciatu / Di chistu cori sì». E di contro una Licia ( sua moglie ) sensualissima e provocante, che «si fa fùttiri, / E pareva la chiù casta». Così come il corpo sublime di Nice, concentrato supremo «di morbidu e citrignu» è il punto trionfale d’arrivo della pulici nel suo girovagare avventuroso per i diversi sentieri del corpo femminile; girovagare che malamente inizia «ntra li rascusi nàtichi / d’una vecchia lurda e ria» e che poi fa tappa nei «corpi delicati» di monache ed educande «cundannati» al chiuso del monastero. Quella della Pulici è una divertita parodia in cui viene concesso all’insetto il privilegio che «non è concessu all’òmini»: esplorare il corpo della femmina, poter esserne «Liberu patruni / di scarminari e vìdiri / li chiù privati gnuni».
Alla sua fedelissima e generosa balia, Caterina, Tempio riserva, nel poema La Carestia, solo due versi, ma colmi d’affetto: «Ma tu non poi scapparimi / di menti, o Caterina». Tra le donne protagoniste dei versi di Tempio, un posto a parte merita Nela, una donna che dal paradiso della bellezza cade nell’inferno del peggiore degrado a causa della sopraffazione della seduzione di un arido uomo arricchito sifilitico (tal Don Lapidio, da lapis, cioè pietra): «Di nomu Don Lapidiu, / né a casu, pr’un perfettu / massizzu cori frigidu / di sciara, ch’avia in pettu». Icastica e grondante pietas è la descrizione di Nela : «Chista infelici giuvina / un tempu friscìa e grossa / era ridutta un orridu / scheretru in nervi e ossa».
Vi sono pure un paio di donne, nei suoi componimenti, contro cui Tempio lancia strali acuminati per non avere ceduto ai suoi corteggiamenti: Clori e Tudda. In questi versi, Micio condanna Tudda a una sorta di pena del contrappasso: sarà lui a non concederle il suo corpo. «La risposta ti cunveni / E ti tocca pari passu, / ora ca tu mi vo’ beni / stu me cori è già di sassu».
Una canzonetta è dedicata ad Antonia (Elogio d’una certa Antonia). Pare che si tratti di una prostituta realmente esistita che avrebbe avuto il merito di averlo fatto risorgere ai piaceri della carne quando, ormai maturo (l’incontro risalirebbe al 1808 e il poeta si avvicinava ai sessant’anni), sembrava giunto al crepuscolo dei sensi amorosi [5]. Quell’incontro fu magico: «Già stanca e debuli / sta pizza mia / disìu di fùttiri / chiù non avìa / E fridda e piccula, / tutta aggruttata / comu casèntulu / stava ammucciata / Vinisti e subbitu / vidennu a tia, / chi vogghiu diriti / ca fu magia?»
3Soprattutto l’ultima parte dell’esistenza di Tempio fu avversata dalla povertà. Malgrado avesse ottenuto la nomina, con regio decreto, di notaio di Valcorrente, pare non abbia mai esercitato la professione. Anche l’abitazione in cui dimorava era ridotta a un tugurio. Lo canta persino in alcuni suoi versi: «Surgi lu miu tuguriu / tra sciari e petri tunni». Gli furono vicini alcuni amici, che seppe conquistarsi per la sua integrità morale e il suo spessore culturale: il vescovo Salvatore Ventimiglia, il canonico don Innocenzo Fiore, che aveva la cattedra di Lettere italiane all’Università di Catania, il barone Pedagaggi, il canonico don Francesco Strano. Costoro lo aiutarono molto con i loro sussidi, specie dopo la morte di Caterina, e si adoperarono con successo per fargli ottenere un vitalizio dal Monte di Pietà e dalla Mensa vescovile. Il fatto che Micio per sbarcare il lunario accettasse il sostegno finanziario della gnura Caterina e le sovvenzioni degli amici, potrebbe indurre a pensare a una sua indole opportunista e servile. Nulla di più lontano dalla realtà.
Tempio teneva molto alla propria dignità e al proprio orgoglio di povero, accettava quegli aiuti perché provenivano da persone a lui vicine, che lo volevano davvero bene. Anzi, tra i suoi versi scorgiamo il disprezzo per gli scrocconi: «Non speru nenti , né fu me pinseri / d’accrisciri li numiru prefissu / e aggravari di nautru laparderi / chista chi prucedi a vui davanti / schiera di ‘mbriacuni e traballanti». D’altra parte, nel ritratto che ne fa Percolla [6], il suo primo biografo, emergono, a parte le sue caratteristiche fisiche – «di compressione vigorosa e d’alta statura» – e il suo «sguardo acutissimo che dinotava un ingegno prepotente», la sua avversione ai «raggiri del basso mondo», la sua spiccata tempra morale che lo conduceva a vivere in una sdegnosa solitudine alleviata dall’amicizia, sentimento in cui credeva ciecamente e che gli era corrisposto.
Nel 1819 il comune di Catania concesse a Micio Tempio una pensione. Troppo tardi, perché il poeta sarebbe morto di lì a poco. A Catania, nella sua città: su ciò si è certi. Quando, però, non lo si può dire con precisione, perché al riguardo si accavallano date discordanti, a conferma della damnatio memoriae caduta sul poeta. Secondo una fonte, Tempio morì il mattino del 4 febbraio 1820; secondo un’altra, il suo decesso cade nel 1821, e ciò sarebbe avvalorato dall’Elogio Accademico pronunciato quell’anno in sua memoria da Innocenzo Fulci. La toponomastica catanese alimenta ancora più i dubbi: la via dedicata al poeta indica due date diverse nelle sue estremità; soluzione salomonica che non scontenta nessuno dei suoi biografi [7].
4Letto e apprezzato in vita, malgrado ridotto in condizioni di miseria materiale, per tutto l’Ottocento Tempio fu dimenticato e considerato un poeta pornografico non degno di considerazione letteraria. Non cambiò molto agli inizi del XX secolo. Solo nel secondo dopoguerra, la poesia di Tempio cominciò a essere rivalutata e apprezzata. In particolare è La Carestia l’opera che venne riconosciuta, e continua a essere riconosciuta, tra quelle di Tempio, di maggior pregio estetico. Pubblicato postumo nel 1848 a cura di Vincenzo Percolla, è un poemetto in venti canti composti da quartine in settenari, che ha per tema la carestia e i tumulti sociali che si verificarono a Catania tra il 1797 e il 1798. È un’opera che supera la stagione dell’Arcadia, cui pure si colloca pur con le sue impronte singolari Domenico Tempio, per precorrere la generazione verista. In tal senso, assai significativi si rivelano i suoi versi d’apertura, di taglio programmatico: «Cantanu l’armi o càntanu / la so’ amurusa stizza / alcuni, o l’occhi nìuri / di Nici, e sua biddizza. / Iu cantu la miseria, / ed iu pri st’autru versu / mi sentu d’esser utili, / si nun è tempu persu». La sua cifra stilistica di poeta civile – ché tale può definirsi il Tempio de La Carestia – si manifesta soprattutto nella satira, per esempio in quella contro la presunta purezza della nobiltà. Così Tempio si scaglia contro la Sciancata, una donna che ostenta origini aristocratiche: «Chidda di sangu nobili / Secunnu li so carti / N’aveva chiù d’un rotulu / vicinu a cincu quarti. / Li nanni soi tutt’eranu / Chi illustri, chi famusi, / (E forsi si po’ cridiri, / Pirch’eranu tignusi)».
Domenico Tempio fu un poeta d’ingegno multiforme, con più anime tra di loro non contraddittorie. Da un lato, fu il poeta che cantò con spregiudicata libertà il sesso e i suoi desideri, dall’altro il poeta che denunciò le ingiustizie sociali, la povertà, i soprusi dei prepotenti. In una epigrafe a lui dedicata, questa sua duplice ispirazione è sinteticamente e felicemente espressa: «Lubrici amor cantò con lingua oscena / E temi gravi con feconda vena».
Il Tempio poeta erotico è stato «e continua ad essere – a detta di Santi Calì – il poeta più infamato e infamante della nostra epoca». Ingiustamente. Anche se a volte le sue rappresentazioni carnali tracimano nella scurrilità o si manifestano con meccanicità ossessiva – tipica della pornografia –, è bene ricordare che tanti componimenti sono mere esercitazioni dilettevoli destinate a un pubblico privo di pretese, e che l’autore non aveva intenzione di pubblicarle. Peraltro, molte di queste – le più banali – hanno una paternità incerta: è assai probabile che siano frutto di mediocri imitatori del Tempio. Si aggiunga che il ‘700 è stato definito il siécle de plaisir: il secolo in cui l’erotismo è accolto in letteratura come anelito di libertà, soprattutto in Francia.
In Sicilia, Tempio non è stato l’unico poeta erotico: insieme a lui, si divertivano con rime licenziose il trapanese Giuseppe Marco Calvino [8], il palermitano Ignazio Scimonelli e lo stesso abate Meli – che generalmente viene contrapposto, per spirito e sensibilità più rarefatti, al “prosaico” e “sanguigno” poeta catanese, i cui versi “osceni” ebbero minore diffusione. Né mancarono, in questo periodo nel resto della penisola, esempi di poeti erotici: un nome su tutti, il milanese Carlo Porta. I migliori versi erotici di Micio Tempio, lungi dal rivelarsi osceni, sprigionano gioia di vivere, divertimento dei sensi, avversione agli ipocriti conformismi e testimoniano un contesto sociale che si scrolla d’addosso pregiudizi e inibizioni. Sotto il profilo estetico, poi, la qualità è palesata da dotti espedienti, quali l’utilizzo, in scherzevole chiave poetica, di latinismi e frasari giuridici.
Il Tempio poeta civile, quello soprattutto de La Carestia, denuncia le ingiustizie e l’impari lotta tra i ricchi e i poveri: il povero è un vaso (una quartara), il ricco una pietra, e la pietra è destinata, per le leggi di natura, a spaccare il vaso. Tempio si schiera dalla parte dei poveri, e ne assume la difesa con la lama tagliente della sua satira. La stessa con cui, da ragazzo, si prese beffa delle più alte cariche del seminario.
Dialoghi Mediterranei, n.31, maggio 2018
Fonti di questo articolo:
- Eros e satira nella poesia di Domenico Tempio, di Antonio Cangemi: https://www.istitutoeuroarabo.it/DM/eros-e-satira-nella-poesia-di-domenico-tempio/
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