L’attività agricola tra XVI e XX secolo. Burgisi e Massarioti

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L’attività agricola tra XVI e XX secolo. Burgisi e Massarioti

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Pubblicato in Cultura e Società · Sabato 04 Nov 2023

L’attività agricola tra XVI e XX secolo. Burgisi e Massarioti

Per potere capire la situazione agricola tra Sedicesimo e Diciannovesimo secolo dicendo che essa era fondamentalmente basata sui latifondi di proprietà dei baroni o della Chiesa o dei comuni. Parallelamente riuscivano a esistere tenute più modeste di proprietà dei burgisi cioè dei contadini che avevano riscattato, o tenevano la proprietà in affitto, in veste di massarioti. Il massaro, si intendeva in età medievale il coltivatore di un manso, ovvero un piccolo lotto agricolo.
In Sicilia nel 1610 il governo concesse ai baroni la facoltà di fondare nuovi centri abitati non già nelle terre demaniali, bensì nei feudi in loro possesso. La licentia populandi era una concessione, del Regno di Sicilia, in favore dei baroni o feudatari consistente nel privilegio di popolare un feudo. La licenza conteneva il privilegium aedificandi ossia il permesso di cominciare la costruzione del borgo, che spesso avveniva in luogo di una preesistente residenza feudale, castello o baglio. Secondo la forma dei Privilegi e dei Capitoli del Regno, e gli si dava il potere di istituirvi il castellano, il segreto, il cappellano, il giudice, i giurati e gli altri ufficiali come le altre terre, poteva imporre e percepire e riscuotere tutti i diritti delle gabelle, la dogana, il baiulato, l'arrendamentolo zagato.
La maggior parte dei signori proprietari terrieri, godeva del diritto più discreto di prelazione ai prezzi del mercato o del governo. I mulini e le presse d’olio erano di solito nelle loro mani, e se permettevano ai loro vassalli di prendere il loro grano e le loro olive da qualche altra parte, insistevano comunque sul pagamento di una decima per la macina e la pressatura.
Per settori più specifici della produzione agricola, bisogna tenere conto di quanto dice il Trasselli, a proposito della fabbricazione dello zucchero. Ipotesi confortata dalla documentazione coeva di un trappeto(frantoio) pressochè identico a quello dell’olio. Per quanto riguarda gli attrezzi rurali, come il frantoio e il torchio bisogna tenere conto anche della descrizione che ne fà il grande studioso Giuseppe Pitrè, venivano ulteriormente modificati i Capitoli sulla produzione di frumento e di seta dal Parlamento siciliano, nei suoi rispettivi tre bracci, ecclesiastico, militare e demaniale. Ciò che si lamentava era la mancanza di un assetto dei ” commerci ”
In Sicilia la condizione di servo era già scomparsa nei secoli tredicesimo e quattordicesimo, ma i coltivatori che affittavano le terre erano ancora soggetti a un gran numero di restrizioni. I signori rivendicavano una certa percentuale dei loro raccolti, lavoro non retribuito, l’uso esclusivo delle foreste e dei pascoli comuni durante parte dell’anno, e alle volte perfino dell’intera proprietà se essi lasciavano la tenuta. Il governo dovette emanare leggi contro l’ultima di queste pratiche come pur contro l’ingiusta abitudine dei baroni di costringere i fittavoli a vendere l’intero prodotto a basso costo di modo che successivamente, durante l’anno, gli stessi fittavoli dovevano ricomprare ciò di cui necessitavano a prezzi maggiorati.
Nascono cosi nuove figure, i Massari, o Massarioti che erano sovrintendenti, che si occupavano dell'affitto dei feudi, delle greggi e delle imprese cerealicole, e in seguito, i ricchi borgesi che governavano la "Massaria", azienda con buoi e pecore, ed i Burgisi o Borgesi.
Il lavoro del contadino è sempre stato molto pesante. In tempi non molto lontani gli uomini venivano abbrutiti da una immane fatica che durava 365 giorni all’anno, una ricompensa modesta e spesso limitata al vitto quotidiano per la numerosa famiglia. La classe agricola ravanusana era divisa in "burgisi", "mitatieri" e "iurnatara" piccoli proprietari, mezzadri e lavoratori alla giornata.
I primi possedevano poche salme di terra (una salma corrispondeva a 16 tumoli, circa quattro ettari, poiché il tumolo misura mq. 2361) e prendevano in affitto parte dei feudi dei baroni, che erano proprietari di sconfinati latifondi.
Li "burgisi" una classe media, faceva coltivare il loro feudo a li "iurnatara" che a grande schiera lavoravano l’intera giornata. I più fortunati di li "iurnatara" diventavano persone di fiducia e di famiglia dei "burgisi" e avevano il lavoro assicurato per tutto l’anno e con il lavoro la mancia, cioè quella quantità di frumento che serviva per sfamare la famiglia per tutto l’anno. La maggior parte invece all’alba doveva alzarsi, scendere in piazza, dove i padroni "addruvavanu" (affittavano) gli uomini imponevano il prezzo della giornata di lavoro. Chi aveva l’asino o il mulo caricava la zappa e "li viertuli" con dentro un pezzo di pane, qualche oliva e "lu bummulu" per l’acqua e partiva per la campagna, percorrendo anche diversi chilometri, altri spesso venivano caricati dai carretti dei padroni e altri dovevano affrontare la strada a piedi. All’alba dovevano tutti trovarsi sul posto di lavoro. Il lavoro era sempre lo stesso; si preparava il terreno con l’aratro per la semina e dove non era possibile bisognava zappare a mano. Seguiva poi la semina che durava qualche mese e subito dopo, appena spuntavano i primi germogli, bisognava "zappuliari" per togliere le erbacce. E cosi lavorando e "taliannu lu celu" (aspettando la pioggia) passava l’inverno. Con giugno iniziava la mietitura. I mietitori dormivano per la strada e solo quando trovavano chi li prendeva potevano avere un giaciglio più comodo "la paglialora" (pagliera). Nelle famiglie più generose le donne la sera cucinavano la pasta a questa povera gente che rientrava distrutta da una giornata di fatica sotto il sole cocente. Quando si lavorava in terre molto distanti dai paesi si rimaneva fuori casa per settimane. La mietitura iniziava dalle zone calde del litorale e terminava sulle montagne del nisseno e dell’ennese dove la maturazione avveniva più tardi. I mietitori camminavano a piedi con le scarpe dette"Zappitte". Alcune mietevano il grano, altre raccoglievano li "iermiti" (covoni) che messi assieme costituivano la "gregna". Dopo si ‘strauliava" cioè si trasportavano li "gregni" che venivano disposte a "timugna" (catasta) pronti per essere "pisati" (trebbiate) nell’ aia da una coppia di muli che pestavano le spighe girando attorno accompagnati dal canto del contadino. Alla raccolta del grano seguiva "l’abbacchiatura" e "la smallatura" delle mandorle e poi la raccolta delle olive. La vendemmia concludeva il ciclo di lavoro.
I Burgisi erano solitamente proprietari di case solerate possedevano case con più vani bestie i stanze separate, terreni più ampi e filari di viti, questo gli permetteva di superare l’inverno senza chiedere anticipi o soccorsi, quindi la possibilità di disporre di scorte vive e morte, gli attribuiva l’accesso ad un altro livello di mercato e l’accesso a strumenti di produzione, vedi i mulini, frantoi o palmenti, diciamo che il valore dei crediti e del contante doveva superare il valore degli animali e del seminato.
Il ruolo della vigna era importante perché fonte di sostentamento dei ricavi del vino, se ne traggono sarmenti, ortaggi e legumi piantati tra i filari.
Per il buon profitto dei commerci e quindi anche dell’agricoltura, era però necessario migliorare la viabilità con la costruzione di nuove strade. Oltre a facilitazione di potersi trasportare in tutti mesi dell’inverno, e dell’autunno: tempo, in cui le strade di Sicilia si rendono quasi impraticabili, recano pure il vantaggio d’impegnarsi meno uomini, e meno animali.”

Quindi l’economia agraria ruotava attorno a tre colture fondamentali nel territorio che sono la vite, l’ulivo e il grano. Su un piano inferiore abbiamo poi la produzione degli agrumi.
E questo unito alla mancanza di capacità imprenditoriali della maggioranza dei nostri contadini, unita ad una delle peculiarità della struttura agraria e sociale della nostra Sicilia che nel passato è stata la persistenza della grande proprietà, ma ormai essa non ha più le dimensioni nè il carattere di latifondo.
La realtà è che oggi la maggioranza del territorio è diviso in piccolissime e piccole aziende, sotto i 5 ettari, che per la maggior parte hanno una conduzione diretta. Negli anni del suo più forte incremento, si è verificato un progressivo abbandono della terra con danni incalcolabili per l’agricoltura, motivo per cui questa non è riuscita a decollare malgrado la presenza di tanti bacini idrografici che dovevano costituire la ricchezza per tante zone della Sicilia, specialmente dove si era lamentato maggiormente la mancanza di acqua per uso irriguo. Altri aspetti negativi che sono sorti di riflesso vanno individuati in una incontrollata espansione edilizia, una classe sociale boriosa ed arrogante spesso legata alla mafia che in questo periodo divenne la padrona assoluta del territorio anche con la connivenza di alcuni settori della classe politica, come è stato ampiamente dimostrato.

Oggi è cambiata l’agricoltura si è affacciato l’agriturismo, le cantine vinicole, l’intento di valorizzare le eccellenze gastronomiche della Sicilia supportate dalla conoscenza dei beni culturali che sono tra le cose più preziose che possediamo, i Burgisi vecchia maniera li vediamo solo nelle feste e nelle sagre.
Tutto questo dovrebbe aiutare ad uscire da questa profonda crisi generale che penalizza pesantemente la nostra terra. Sono ormai in tanti a crederci, speriamo solo che ci credano anche i nostri politici.



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