La “Via della Seta” un tempo era in Sicilia

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La “Via della Seta” un tempo era in Sicilia

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Pubblicato in Cultura e Società · Martedì 06 Apr 2021
Tags: ViasetabacogelsoproduzioneSiciliastoriagelsicoltura

Pochi lo sanno, ma la “Via della Seta” un tempo era in Sicilia e passava da Messina

La Sicilia è stata una delle tappe più fiorenti della Via della Seta, nelle zone dei Nebrodi, la coltivazione del gelso e l’allevamento del baco da seta erano tra le maggiori fonti di guadagno.
La seta ha origini antichissime, non è questo quello di cui vogliamo parlarvi, per brevità diciamo che i Bizantini portarono l’allevamento del baco da seta in Europa e che in seguito alla conquista della Sicilia da parte degli Arabi, l’allevamento dei bachi divenne una delle attività più redditizie, al punto da creare uno stile ben definito: “alla siciliana”, tanto che per circa un secolo, le sete siciliane giunsero nelle piazze mercantili più importanti d’Europa.
La seta rappresenta per la Sicilia orientale un bene di consumo, una trasformazione locale e soprattutto un prodotto di esportazione.
Quella che non veniva esportata era destinata alle botteghe di filatori e tessitori delle uniche tre città isolane, Messina, Palermo e Catania, che potevano effettuare le fasi successive del ciclo produttivo. Si dava vita ad abiti preziosi, velluti e tessuti utilizzati per i paramenti sacri.
La fine di un’epoca, si ha quando la città dello Stretto perse il privilegio dell’esportazione esclusiva della seta nel 1664, la produzione e commercializzazione ebbe conseguenze disastrose.
Il governo, nel 1727, istituì sia a Catania che a Messina, il Consolato della nobile arte della seta per privilegio di Carlo VI, re di Sicilia. In quegli anni i Consolati ricoprono un ruolo di rilievo. Controllano la qualità dei prodotti, ma influenzano altresì la vita politica ed economica dell’isola.
Tra queste non si può che menzionare Palazzo Auteri (ubicato tra le Terme dell’Indirizzo e il Castello Ursino), una delle seterie italiane tra le più importanti, senza dimenticare Messina dove ha sede l’attuale Museo.
Il commercio della seta in Sicilia, come abbiamo accennato, era regolato dai Consolati della seta di Messina, Catania e Palermo, molte furono le contese nel corso degli anni per il monopolio della seta tra le tre città. Nel 1776 anche Acireale, di antica tradizione, si candidò a divenire Consolato per lavorare in proprio la seta, le tre città, però, si opposero alla candidatura. Le cose cambiarono soltanto nel 1781 quando fu abolito il decreto che limitava l’esercizio alle sole città del Consolato. Alla fine del XVIII secolo l’industria serica decadde nell’isola.
Il terremoto del 1783 segnò l’inizio della decadenza dell’attività bachi-sericola, anche a causa di una malattia che aveva colpito il baco. Dopo il 1850 la produzione perse ogni valenza fino a scomparire. In Sicilia, si volgeva lo sguardo verso altri settori. Dalla seta si passava allo zolfo, al vino e agli agrumi.
Molti proprietari cominciarono ad estirpare i gelsi e a piantare gli agrumi. Nel ‘900 alcuni centri mantennero ancora per poco la bachicoltura, che cessò tuttavia definitivamente nel secondo dopoguerra.
Bisognerebbe ricordare, soprattutto nei Peloritani, che il paesaggio agrario racconta la sua storia dei muretti a secco. Da quando sono venuti a mancare i gelseti, quello che ha resistito sono le terrazze in muratura a secco (armacie) costruite dai contadini per mettervi a dimora le piante di gelso.
A Sant’Angelo di Brolo, per esempio, c’è un Museo di arte sacra all’interno del quale sono conservati dei paramenti di seta prodotti in loco o in altri centri del Messinese. A Ficarra l’amministrazione comunale ha addirittura istituito solo a fini didattici, la “Casa del baco” dove si allevano i filugelli con li stessi metodi di cui hanno memoria degli anziani, anche a Savoca si parla della bachisericultura.
Non dimentichiamo che il fulcro di questa laboriosa attività era prima la famiglia contadina che divenne così un piccolo laboratorio, e dopo attività industriale, dove la donna allevava il baco, lo seguiva nelle varie mute. A questo punto una volta ottenuto il filo di seta si passava alla commercializzazione vera e propria. Le matasse di seta, a secondo dei bisogni, venivano colorate oppure lasciate al naturale. Ad esempio per ricavare il colore porpora, utilizzato dai più ricchi, essendo il colore emblema della regalità, veniva utilizzato un procedimento lungo usando una particolare varietà di molluschi. In passato, anche le monache benedettine di San Piero lavoravano la seta.
Dal medioevo ai primi anni del secolo scorso, la sera precedente la festa dell’Ascensione la gente di Messina correva a frotte verso la spiaggia, si inginocchiava e ripeteva per nove volte di seguito, a ogni flutto, una curiosa preghiera. “Ti salutu fonti di mari,/ ccà mi manna lu Signuri:/ tu m’ha dari lu to beni,/ jò ti lassù lu me mali.”
Dopo si raccoglieva un pugno di sabbia. «La ’rena raccolta poi si andava gittarla su i tetti delle persone che allevavano il baco da seta, gridando con gioia: Setti liviri a cannizzu».
Sette libbre di bozzoli a graticcio che era molto di più di quanto mediamente rendesse la bachi­coltura, oltre a rivolgere una preghiera a San Giobbe, tradituri per sua indole e fin troppo tollerante verso le fattucchiere che mandavano il malocchio.
Se ne facevano di benedizioni anche alle uova nei venerdì di marzo. Si pregava San’Antonio Abate perché le proteggesse dal fuoco e dalle formiche, San Zaccaria per preservarlo dai topi.

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