I caricatori e l'asse viario in Sicilia dal 1500 al 1800

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I caricatori e l'asse viario in Sicilia dal 1500 al 1800

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Pubblicato in Cultura e Società · Domenica 02 Lug 2023
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I caricatori il mastro portulano e l'asse viario in Sicilia dal 1500 al 1800

Al sistema viario si associava poi il commercio via mare. Fulcro di questo commercio erano i Caricatori, essi erano presenti soprattutto presso i porti di Palermo, di Messina e in minor misura, di Trapani a gestire il traffico; alterne fortune ebbero i porti secondari di Termini, Marsala, Agrigento, Siracusa, Augusta. Il commercio gravitava sul mare, con i traffici “internazionali” nei quali I’Isola era inserita, e dal mare continuava verso l’interno con una rete viaria, si spingono fino alle masserie.

Mutamenti resi fattibili da quella possibilità di utilizzare in maniera flessibile tradizionali rapporti di produzione e consolidati patti agrari, piegandoli alle nuove esigenze produttive e di mercato che permise nel tempo alle produzioni agrarie siciliane di godere, alternativamente per periodi più o meno lunghi, di  posizioni di monopolio sulla scena internazionale.

Ad esempio, tra il XIV e il XV secolo, la forza esportatrice delle produzioni di canna da zucchero venne velocemente soppiantata dalla gelsibachicoltura e dalla produzione serica, per essere poi rapidamente sostituita, dalle più richieste produzioni viticole, agrumicole, olearie. Per non parlare poi delle produzioni minerario-estrattive, come quella del sale o ancor più dello zolfo, i cui assetti proprietari e le cui strutture produttive e contrattuali, così simili a quelle agricole, consentirono all’economia siciliana di rimanere a lungo protagonista sulle maggiori piazze europee.

Nel Settecento borbonico la rete viaria fu migliorata con la costruzione di strade carrozzabili, con un processo che si pone sulla scia della più ampia iniziativa di rinnovamento delle infrastrutture stradali verificatasi in Europa a partire dal XVIII secolo, seguirà l’avvento delle strade ferrate per il trasporto dello zolfo.

In Sicilia, l’obiettivo economico di fondo del nuovo assetto viario rimase quello di permettere un collegamento rapido dall’interno verso la costa, con mezzi di trasporto a terra sostanzialmente invariati. In un primo periodo (fino al 1838) furono privilegiate le province di Palermo, Catania e Messina, certamente in considerazione della gerarchia amministrativa.
Logiche diverse sembrano dettare le varie fasi del processo. In una prima fase è la capitale a farla da padrone, definendo un assetto viario che le consentì non solo di essere in rapido contatto col suo hinterland, ma anche di penetrare nell’Isola verso ovest (Trapani, Marsala), verso sud (Corleone) ed est (Caltanissetta).
Palermo si colloca così al punto di confluenza del reticolo stradale, l’unico fino al 1824 degno di questo nome.
Nella seconda fase si delinea una nuova articolazione territoriale: Trapani riuscì a collegarsi con una rotabile a Calatafimi, offrendo alla produzione dell’entroterra uno sbocco alternativo a Palermo. L ‘innovazione più importante è la rotabile Palermo-Caltanissetta-Catania-Messina, di cui la vera beneficiaria fu Catania, che poté organizzare il percorso circumetneo e porsi in competizione con Palermo.

Nelle due fasi successive la posizione di Catania si rafforzò ulteriormente con la rotabile che la collegò a Siracusa a Noto e il Ragusano.
Le carte rivelano anche per i percorsi postali, che oramai ricalcano quelli stradali, i tempi di percorrenza si sono più che dimezzati: nel 1714 per recarsi da Palermo a Caltanissetta occorrevano due giorni, alla metà dell’Ottocento occorre meno di un giorno; da Palermo a Catania il tempo da quattro giorni si è ridotto a due.

E’ però grazie alle ubicazioni dei caricatori (XVIII secolo) e delle dogane (XIX secolo) che ci è permessa una lettura dei porti ed approdi spesso vicini con conseguente conflittualità e competizione.
Il Caricatore era una struttura, nella quale largo spazio era stato dato alla gestione decentrata degli stessi, arrivando perfino ad alienarne l’amministrazione ai magazzinieri, fatte salve alcune disposizioni generali, quali quelle sulla qualità dei grani, sulle tratte e contro le «estrazioni furtive», a partire dal secolo XVII si iniziava, così, a creare un vero e proprio apparato burocratico complesso, nel tentativo di potenziare i controlli tanto a livello decentrato che a livello centrale.
Il controllo veniva esercitato dal Maestro Portulano erano 33, quante «le Marine del Regno, che dice tenesse la propria giurisdizione d’un confine all’altro», cioè «1 Palermo, 2 Castell’a mare, 3 Trapani, 4 Marsala, 5 Mazzara, 6 Sciacca, 7 Siculiana, 8 Girgenti, 9 Licata, 10 Terranova, 11 Pozzallo, 12 Vindicari, 13 Siragosa, 14 Agosta, 15 Agnone, 16 Catania, 17 Jaci Sant’Antonio, 18 Jacireale, 19 Taormina, 20 Gallidoro, 21 Santo Alesi, 22 Messina, 23 Milazzo, 24 Patti, 25 Brolo, 26 Naso, 27 San Marco, 28 Acquedolci, 29 Caronia, 30 Tusa, 31 Cefalù, 32 Roccella, 33 Termine».

Tenuto conto poi che molti altri caricatori non godevano di un entroterra frumentario e che quindi fungevano più da «scaricatori», da luoghi cioè di importazione, che di esportazione dei grani, «si restringeva il principale commercio» nei cinque caricatori che «sopra di tutti si nominano Regij», Sciacca, Girgenti, Licata, Terranova, Termini, la cui amministrazione ricadeva in tutto e per tutto sotto la giurisdizione del Maestro Portulano e dei suoi ufficiali. Era da questi cinque porti, infatti, che si esportava la quasi totalità del frumento prodotto nel Regno una parte non trascurabile della quale veniva imbarcata «furtivamente».

Il caricatore di Sciacca

Il caricatore di Sciacca fu uno dei principali porti frumentari siciliani per la considerevole capacità di immissione di salme di frumento sul mercato: nei primi del Quattrocento era il terzo dopo Licata e Agrigento e ancora in età moderna si manteneva nel primo gruppo di caricatori siciliani, cioè fra quelli che commercializzavano più di un milione di salme.
A Sciacca, in seguito alla costruzione delle mura Federiciane (1335-36), il vecchio caricatore, rimasto all’interno della città, a causa del continuo transito e sferragliare dei carri a tutte le ore del giorno, fu soppresso e ne venne creato uno nuovo, sotto la Porta di Mare, vicino al porto, in una zona asciutta e in declivio che potesse così impedire l’accumularsi delle acque piovane, difeso da una parte dalla cinta muraria, dall’altra dal fortino chiamato "Propugnacolo di San Paolo". Il nuovo caricatore poteva contenerne circa 40.000 salme di frumento e si estendeva per circa quattrocento metri. Nel pendio vennero realizzati diversi piani, intervallati da vie, con recinti o cortili, alcuni dei quali coperti da tettoie chiamate pinnate.
In origine, le fosse granarie, furono probabilmente abitazioni rupestri o sepolture, in seguito allargate e trasformate in ambienti ipogeici, e utilizzate poi come magazzini di stoccaggio in attesa di essere e caricate nelle navi alla fonda del suo porto. I granai erano scavati nella roccia viva, avevano la caratteristica forma a “imbuto rovesciato”, con accesso dall’alto ed erano collegati tra loro con canali, detti cannoli, che permettevano il trasferimento dei cereali conservati in fosse di varia dimensione. Nella stessa area del Caricatore si trovavano i diversi uffici del personale preposto alla sua gestione.

Tutti i caricatori, regi e baronali, erano comandati da un maestro portulano e senza la sua autorizzazione non era possibile estrarre il grano depositato. A dirigere i traffici dei singoli caricatori, gestendone gli affari e ricavandone lauti guadagni, erano i viceportulani, di solito membri del patriziato urbano.
Tra i “forestieri” che gestivano il commercio estero vanno ricordati in primo luogo i Genovesi che godevano quasi del monopolio del commercio a Sciacca e vi crearono un loro consolato all’inizio del Quattrocento. Attivi anche gli Iberici che già nel Trecento avevano a Sciacca un viceconsolato catalano e, in ultimo, vi erano i Pisani.
I Caricatori della Sicilia furono aboliti con un decreto il 21 giugno del 1819, quando vennero sostituiti dai mulini come luogo di raccolta del frumento.

A Porto Empedocle, la Torre di Carlo V ed il caricatore

A Porto Empedocle, la Torre di Carlo V, è una massiccia costruzione (fortezza) ricavata da una torre più antica preesistente, si presenta con l’aspetto che assume nel 1554, sotto il vice regno di Don Giuseppe Vega, a difesa del caricatore più importante dell’isola; la massiccia struttura, dalla forma tronco-piramidale, è sovrastata dal cosiddetto “terrazzo delle cannoniere”.
Le dimensioni e le difese della fortificazione, ancora oggi danno l’idea dell’importanza rivestita dal caricatore nell’economia dell’epoca. Già nel XV secolo l’allora “Marina di Girgenti” era uno dei più importanti caricatori di grano della Sicilia, a guardia del quale venne costruita nel ‘500 l’imponente fortezza difendendo Porto Empedocle dalle incursioni piratesche.
Nel 1648 viene venduta col caricatore al vescovo Traina. Dopo la costruzione del Molo, nel Settecento, divenne la base di appoggio della difesa della riviera meridionale, perché da allora la costa venne pattugliata da due navi da guerra che partivano da Siracusa e Trapani e vi ritornavano dopo essere arrivate al porto di Girgenti.
Sotto il regno Borbonico venne poi utilizzata come prigione e, nel 1848 fu teatro del massacro di 114 detenuti inermi, reso noto dal celebre scrittore Andrea Camilleri nell’opera “La strage dimenticata”.
Fatti uccidere per soffocamento dall’ufficiale che comandava la casa di pena, il maggiore Ignazio Sarzana. I 114 detenuti, che per molti studiosi erano di più, furono uccisi perché, essendo scoppiata la rivolta a Palermo ed essendoci alcuni loro familiari dinanzi alla torre che ne reclamavano la libertà, il maggiore Sarzana per evitare la rivolta, diede ordine di metterli assieme nella fossa comune. Per impedire poi che le loro grida si sentissero fuori, fece chiudere l’unica presa d’aria della fossa, non prima di aver fatto gettare dentro tre petardi. Fumo e mancanza d’aria soffocarono gli sventurati.
L’interno è composto da alcuni ambienti la cui copertura è del tipo volta a botte. Nel basamento della torre erano state ricavate delle larghe fosse, colmate poi dopo il 1860, destinate all’accoglimento di generi di vettovagliamento. Vi si trovava tuttavia una grande cisterna, dove defluivano le acque piovane che si raccoglievano nell’edificio e che, spesse volte servivano a dissetare il paese. Ampie camere, coperte da volte a crociera, ma molto basse, si aprono al piano superiore.
L’ingresso odierno è stato creato di recente, mentre ancora durante la dominazione borbonica si accedeva alla torre da una scala esterna che raggiungeva l’ampio portone situato a circa sette metri di altezza mediante un lungo pianerottolo mobile che la sera veniva levato per chiudere l’ingresso.
Oggi è adibita a centro artistico-culturale.


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