La tutela del Patrimonio Culturale in Italia dalle origini

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La tutela del Patrimonio Culturale in Italia dalle origini

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Pubblicato in Cultura e Società · Venerdì 30 Giu 2023
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La tutela del Patrimonio Culturale in Italia dalle origini alla Seconda Guerra Mondiale, l’impianto legislativo moderno ebbe avvio solamente nel XX secolo.

Nel 1902 vi fu la prima legge (l. 185/1902, o Legge Nasi) sulla tutela nazionale, in particolare sulla “Tutela del patrimonio monumentale”, alla quale seguì la l. 364/1909 (Legge Rosadi-Rava) “Per le antichità e le belle arti”.
Con quest’ultima in particolare veniva presentato il procedimento di notifica, ufficializzando i singoli beni da sottoporre ad attività di tutela. Queste rimasero in vigore fino a un anno importantissimo, il 1939, quando vennero promulgate ben due leggi sulla tutela, la n. 1089 che si occupava della tutela delle cose di interesse storico artistico e la n. 1497 che trattava invece delle bellezze naturali. Il fondamento di entrambe le leggi era, ribadendo quanto già presentato nella normativa precedente, la necessità preventiva di individuazione delle cose o dei luoghi di interesse culturale o estetico, al fine di proteggerlo e, dunque, conservarlo.
Nel 1939 venne inoltre fondato L’istituto Centrale per il Restauro (ICR), ribadendo ulteriormente l’importanza primaria

Le origini dell’attività di catalogazione dei beni culturali in Italia si possono far risalire alla legislazione del Granducato di Toscana che, il 24 ottobre 1602 adottava la deliberazione, emessa da Ferninando de’ Medici, allo scopo di limitare la dispersione fuori dai territori granducali di opere di particolare.

Lo Stato Pontificio, con l’editto del 1704, emanato a cura del Cardinal Spinola, dimostrava di possedere già una certa consapevolezza del grande patrimonio culturale di Roma, includendo nei beni degni di tutela anche le testimonianze scritte, come parte del contesto storico-artistico all’interno del quale esse vennero prodotte.

La Repubblica veneziana, il 20 aprile 1773, emanava un provvedimento secondo il quale doveva essere formato un catalogo in cui descrivere le opere pittoriche conservate in chiese e altri luoghi di culto presenti sul territorio per necessità di conoscenza delle stesse, ma anche per evitare che esse venissero in qualche modo manomesse attraverso interventi non adeguati, oppure disperse tramite vendite e alienazioni.

Sulla stessa scia e per la stessa esigenza di contrastare la dispersione del patrimonio fuori dai territori statali, si pose l’editto Doria del 2 ottobre 1802. L’intervento legislativo poneva una limitazione al libero godimento dei beni di proprietà privata, appartenenti, cioè, ai singoli cittadini, favorendo, invece, l’interesse pubblico. I privati che si trovavano in possesso di “oggetti antichi o pregevoli di Arte” dovevano farne dichiarazione allo Stato pontificio, pena la confisca. Inoltre l’Ispettore Generale delle Belle Arti, individuato nella persona di Antonio Canova, o dei suoi incaricati, avrebbe dovuto controllare lo stato di tutte le opere, di cui i proprietari avessero dichiarato il possesso.
D’altro canto, subito dopo l’Unità d’Italia e facendo seguito alle soppressioni ecclesiastiche, si cominciò col dare a Giovan Battista Cavalcaselle e Giovanni Morelli un incarico di catalogazione. I due studiosi furono incaricati dall’allora Ministro della Pubblica Istruzione, Francesco De Sanctis, di redigere un primo catalogo degli oggetti d’arte di proprietà ecclesiastica (le sole pitture) dell’Umbria e delle Marche.

Una volta istituita la Direzione Generale delle Antichità e Belle Arti nel 1882, quindi riordinata l’amministrazione con nuovi organi provinciali, chiamati inizialmente Commissariati poi Uffici regionali, si intese dare un cospicuo avanzamento alla redazione del catalogo. L’allora ministro Martini istituì un ufficio speciale limitandone però il compito alla compilazione del catalogo dei soli monumenti.
Il suo successore Baccelli abolì tale ufficio ampliando il lavoro anche agli oggetti d’arte e affidandolo agli organi provinciali. Gli effetti furono positivi e si compilarono migliaia di schede, al tempo dei due direttori generali Giuseppe Fiorelli e Felice Barnabei.
Tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, l’Italia fu colpita da numerose esportazioni illecite. Tra queste emblematica è la vendita (1891) di un cospicuo numero di opere della collezione del principe Maffeo Barberini Colonna di Sciarra al marchese Alessandro De Ribiers, il quale le esportò in Francia.



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